CONVEGNO EUROPEO “CIUDADANOS EUROPEOS SIN DEFENSA”

MADRID 8 MAGGIO 2015

CONVEGNO EUROPEO “CIUDADANOS EUROPEOS SIN DEFENSA” intervento di Gilberto Pagani, Presidente d'Onore di AED

Circa un mese fa, come forse tutti sapete, un uomo, imputato in un processo per bancarotta fraudolenta, è entrato armato nel Tribunale di Milano e ha ucciso nell’aula un avvocato e un suo coimputato, poi ha ucciso un giudice nel suo ufficio e ferito il suo ex commercialista.

Le interpretazioni sul significato di questa tragedia si sono sprecate sin dal primo momento.

La prima reazione è stata di tono prettamente securitario: più controlli, più metal detector, soldati armati agli ingressi del Tribunale.

 

La seconda reazione è stata: è un attacco alla magistratura, è frutto del clima di sottovalutazione e discredito del ruolo dei magistrati.

Reazioni che non abbiamo difficoltà a comprendere.

Ma nessuno che si sia interrogato sul simbolismo delle figure coinvolte, e purtroppo vittime, in questa rappresentazione macabra della rappresentazione che tutti i giorni ci vede coinvolti quali attori, il processo.

Ma qual è il nostro ruolo nel processo? Primi attori o comprimari, o comparse, o addirittura oggetti d’arredo? O presenza eventuale non necessaria?

Una delle principali caratteristiche della nostra associazione è di essere formata unicamente da avvocati.

Gli altri punti qualificanti dell’AED sono la vocazione europea e l’impegno per la democrazia, intesa non come insieme di regole formali ma come sistema di impegno e partecipazione dei cittadini per una gestione sociale, collettiva ed ecologica, per il superamento di una società alienata fondata sul dispotismo.

In questa tendenza l’azione dell’AED si incentra sulla lotta per il rispetto e l’ampliamento dei diritti fondamentali, uno dei quali è l’effettiva uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e, e questa è una notazione di non poco conto, di fronte e all’interno del processo.

Già negli anni ’50 il grande avvocato e giurista italiano Piero Calamandrei osservava che quando il povero siaccorge che, per invocar l'uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l'aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase (la legge è uguale per tutti) gli sembra una beffa alla sua miseria.

A prima vista si tratta di un concetto consolidato, se non addirittura di un’ovvietà, che però sappiamo bene come sia raramente applicato nella realtà.

E’ possibile rendere effettiva l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e al processo, o più modestamente, è possibile individuare dei modi di rendere questi principi più presenti negli ordinamenti giuridici?

Già il titolo di questo intervento ci consente di tracciare una linea di demarcazione tra i due sistemi che, nei vari paesi d’Europa, affrontano il problema.

Del sistema di aiuto legale, di assistenza giuridica ai non abbienti si parlerà diffusamente nella tavola rotonda di oggi pomeriggio.

Si tratta di un sistema che tutti conosciamo, basato sull’attività dell’avvocato a favore dei cittadini non abbienti, remunerata dallo Stato e che consente o dovrebbe consentire a chi non può permetterselo di fruire di un’assistenza legale a costo zero.

Si tratta di un sistema legato al sistema di stato sociale, ed è fin troppo noto che lo smantellamento del sistema di welfare rende sempre più difficile e addirittura impraticabile questo tipo di assistenza.

Vedremo appunto oggi se e quanto questo sistema funzioni e permetta di garantire a tutti una difesa e permetta agli avvocati di essere pagati per il loro lavoro.

Ciò che invece conosciamo poco o per niente è il sistema che viene definito “pro bono”.

Anche se le parole sono latine, si tratta di un sistema che viene diffusamente applicato nei paesi di cultura giuridica anglosassone.

In quei paesi non esiste (o è estremamente limitato) il diritto di accesso dei non abbienti alla giustizia, mentre vi è un obbligo deontologico dell’avvocato di impegnarsi a difendere gratuitamente chi non abbia entrate sufficienti a provvedere al suo pagamento; normalmente si chiede ad ogni avvocato di dedicare 50 ore annuali all’assistenza di cittadini non abbienti.

Già questa indicazione di impegno orario, che si ricollega al sistema di tariffa oraria che praticamente non esiste nei paese europei, ci fa comprendere la lontananza rispetto ai sistemi vigenti in Europa.

Se andate sui siti dei maggiori studi legali degli Stati Uniti e di quelli che svolgono un’attività internazionale l’attività di difesa “pro bono” è sbandierata come un fiore all’occhiello; si citano le percentuali di attività pro bono come un elemento distintivo dell’attività dello studio.

Quindi degli studi legali che, per quanto ne sappiamo, prosperano sull’attività e sulle malefatte delle multinazionali, delle banche,  degli speculatori e dei distruttori del pianeta, e mettono le loro capacità al servizio dell’assistenza dei poveri.

Se approfondiamo le notizie su questo settore scopriamo che questi studi molto spesso lavorano gratuitamente per soggetti che in realtà non hanno bisogno di un  simile beneficio (grosse fondazioni, associazioni legate al potere).

E’, al massimo, un sistema basato sulla carità; non si tratta del diritto di ciascuno di essere difeso al meglio anche se non ha mezzi sufficienti, ma del bel gesto di chi ha molto e consente che gli affamati possano cibarsi dei suoi avanzi.

Questo sistema comincia ad essere praticato anche nei nostri paesi, sulla scia dei cambiamenti che la nostra professione sta avendo in conseguenza dei mutamenti portati dalla globalizzazione neoliberista.

Nei paesi dell’est Europa, che dopo lo smantellamento del socialismo reale non ha un sistema di welfare ereditato dalle politiche socialdemocratiche, non esiste, o è ridotto a termini simbolici, un sistema di aiuto legale, e il “pro bono” è l’unica soluzione alternativa all’impossibilità di pagare degnamente un avvocato; ciascuno può valutare quanto questa soluzione sia reale o di pura facciata.

Nei nostri paesi esiste una diffusa realtà di impegno volontario degli avvocati, che si esplica nella la miriade di sportelli legali gratuiti organizzati da sindacati, associazioni, comitati, che offrono alle persone che vi si rivolgono la possibilità quanto meno di avere una prima forma di assistenza, consigli, indicazioni sul modo di comportarsi e di affrontare i vari problemi legali.

Questa non è carità, è impegno personale e militante, ma non è ancora la realizzazione di un diritto.

Anche i legal team, che l’AED promuove e sostiene attraverso la rete di avvocati del Legal Team Europa, fanno parte di questo sistema di garanzie e di sostegno gratuito, in questo caso indirizzato esplicitamente alla difesa del movimento anti liberista, secondo il principio che i diritti fondamentali vanno difesi non soltanto nelle aule dei Tribunali ma in ogni luogo dove essi vengono attaccati o minacciati.

Questo impegno degli avvocati militanti viene colpito in maniera sempre più diretta e anche violenta; mi riferisco ovviamente a ciò che avviene principalmente nei paesi non europei, in cui le garanzie democratiche, anche formali, non esistono o sono di pura facciata.

Con le iniziative del “Day of the endangered lawyer”, promosso da AED, EDHL e IDHAE (Istituto dei Diritti dell’Uomo degli Avvocati Europei) abbiamo denunciato i soprusi commessi contro gli avvocati militanti in vari paesi extraeuropei, in cui nostri colleghi vengono uccisi, torturati, imprigionati e vessati a causa del loro impegno per i diritti umani.

Nei paesi europei la situazione ovviamente non è così drammatica, ma non per questo non ci allarma e inquieta; ho partecipato ieri con la delegazione della nostra associazione a una “fact finding mission” sulla situazione degli avvocati baschi, due dei quali da mesi sono in carcere e fanno parte di un gruppo più vasto di avvocati accusati di sostegno al terrorismo a causa del loro impegno professionale.

Non ci è stato consentito di incontrarli, con violazione dei principi relativi all’assistenza e protezione dei detenuti.

Invito questa assemblea a dimostrare a questi colleghi tutta la nostra vicinanza e solidarietà con un applauso, con l’auspicio che essi possano presto tornare in libertà e che cadano le accuse immotivate che hanno portato alla loro incriminazione.

Il sottititolo di questo intervento è “l’uguaglianza davanti alla legge è anche l’uguaglianza all’interno del processo”; non ci riferiamo, in questa sede, alle norme che regolano la dialettica delle parti nel processo, alla terzietà del giudice, all’equivalenza delle posizioni di accusa e difesa.

Si tratta, ben inteso, di principi fondamentali dell’ordinamento processuale e sostanziale, ma il nostro è un convegno in cui non predomina il tecnicismo giuridico ma, piuttosto, la tensione a una vera e sostanziale uguaglianza delle parti nel processo.

E oggi la realizzazione o almeno la tensione alla realizzazione del principio di uguaglianza nel processo è sempre più di difficile attuazione.

In primo luogo vi è una netta distinzione di approccio e di trattamento a seconda del tipo di imputazione che viene elevata: di fronte ad un’accusa di terrorismo un imputato ha meno garanzie di altri che vengono accusati di reati ordinari.

In secondo luogo vi è una tendenza a colpire determinati comportamenti attraverso l’imposizione di sanzioni amministrative e non penali, come si vede perfettamente in Spagna con la proposta di introduzione della “ley mordaza”, con cui si tende a vietare forme di lotta pacifiche con l’applicazione di sanzioni amministrative che prevedono multe di importo elevatissimo.

Apparentemente punire un comportamento con sanzioni amministrative invece che criminali è un elemento positivo, ma si tratta appunto di apparenza.

Se non altro perché la possibilità di difesa rispetto ad una violazione amministrativa è assai più difficile e meno garantita rispetto ad una sanzione criminale.

Questo lo si vede benissimo nella legislazione e nei procedimenti contro i migranti, dove le sanzioni sono considerate “non criminali”, ma in virtù della loro applicazione persone che non hanno commesso, secondo le valutazioni dei difensori dei diritti umani, commesso alcun crimine o atto illecito, vengono imprigionate per mesi, maltrattate, espulse.

E tutto questo senza le garanzie che un processo penale, per quanto ingiusto ed imperfetto, comunque assicura ad un livello minimo di difesa a tutti gli imputati.

Tralascio per brevità di trattare del processo civile, che comporta ormai costi proibitivi che costituiscono di per sé un ostacolo alla attuazione dei diritti.

Per noi oggi parlare di uguaglianza nel processo significa constatare che una forma enorme di diseguaglianza nel processo è quella tra persone che hanno i mezzi per pagare un avvocato e quelle che invece non hanno questa possibilità ecomonica.

A fianco della tradizionale bipartizione tra difesa dei meno abbienti e pro bono, abbiamo visto come vi sia il sistema chiamato “pro deo”, di puro volontariato.

Ma vi è un’altra tendenza, che questo convegno ha lo scopo almeno di chiarire.

Il sistema della difesa dei non abbienti, che in altre lingue si chiama “aid légal” o “legal aid” ha molte, moltissime carenze.

Per superarle noi diffidiamo del sistema “pro bono” per i motivi che ho detto prima.

La soluzione non può essere neppure il volontariato puro e semplice, che noi consideriamo una grande risorsa per la tutela dei diritti fondamentali, ma che non fornisce all’avvocato alcun tipo di compenso, se non la soddisfazione di operare per il bene comune, remunerazione inestimabile ma che non assicura il sostentamento degli avvocati, che tra l’altro sono in grande maggioranza colleghi che non figurano certo nei primi posti della lista degli avvocati maggiormente retribuiti.

Una soluzione che viene proposta, in vari termini e modi di attuazione, è la pubblicizzazione del ruolo dell’avvocato dei poveri; cioè creare un ruolo di avvocati pagati dallo Stato o da altre istituzione pubbliche che si occupino unicamente della difesa dei non abbienti.

Vi sono proposte, dettate dalla suprema esigenza di razionalizzazione, che vorrebbero trasformare gli avvocati, o almeno una categoria di avvocati, in funzionari pubblici, o, peggio ancora, far assumere il ruolo di avvocati d’ufficio a funzionari pubblici, che verrebbero per questo stipendiati dallo Stato.

In una simile prospettiva l’imputato verrebbe accusato da un procuratore e giudicato da un giudice, dopo essere stato assistito da un avvocato;  tutte  tre le figure farebbero parte dello stesso sistema e tutti tre sarebbero pagati dallo stesso Ministero della Giustizia.

L’unico commento è: agghiacciante!

Un’altra tendenza, certamente più democratica, prevede la costituzione di centri di assistenza legale, pubblici, finanziati dallo Stato in cui i non abbienti potrebbero rivolgersi per la tutela dei propri diritti.

Strutture del genere esistono già in alcuni paesi (Canada, Australia, Sud America).

Occorre ragionare in modo approfondito su questo tipo di proposte.

Proviamo a dare una risposta ad alcune domande: l’avvocato è un collaboratore della giustizia? La funzione dell’avvocato è di assicurare il miglior funzionamento della macchina giudiziaria? Compito dell’avvocato è operare per il trionfo della giustizia?

Vorrei rispondere a queste domande con le frasi che un avvocato pronunciò, negli anni ’80, dalla gabbia degli imputati in un processo per terrorismo, nel quale egli era accusato di complicità con degli imputati suoi assistiti: "L'avvocato è un collaboratore dell'imputato, non della giustizia; l'obiettivo dell'avvocato non è quello di contribuire alla formazione di una, forse esistente, forse no, verità obiettiva; l'obiettivo dell'avvocato non è difendere l'innocente; l'obiettivo dell'avvocato è fare quanto gli è consentito,  per sottrarre il suo cliente alle pretese punitive dello Stato.”

Ritengo che queste parole lapidarie siano il miglior commento alle proposte di rendere l’avvocato un funzionario pubblico interno all’amministrazione delle giustizia, parte integrante dell’apparato di controllo e punizione dello Stato.

Solo una magistratura terza e dotata di una forte e reale indipendenza può garantire l’esercizio della giurisdizione.

Ma a rispondere a una magistratura realmente indipendente deve essere una avvocatura ugualmente indipendente, solo così può essere realizzata una dialettica processuale paritaria.

L’indipendenza degli avvocati, per essere tale, ha bisogno di leggi che assicurino la parità delle parti all’interno del processo; ma ha bisogno anche di un sistema che permetta agli avvocati indipendenza economica.

Solo la totale libertà dell’avvocato è garanzia di tutela dei soggetti sottoposti alla pretesa punitiva della Stato; solo l’indipendenza economica dell’avvocato può assicurare che la sua funzione e la sua attività possano essere effettivamente messe a disposizione di chiunque chieda il suo intervento.

Per questo dobbiamo interrogarci sulle nuove prospettive che si aprono, che, a mio parere, devono garantire la libertà dell'avvocato e rifiutare una visione della nostra professione appiattita sulla subordinazione degli avvocati ai superiori interessi della giustizia.

Madrid 8 maggio 2015

Avv. Gilberto Pagani