TAV. Il Procuratore generale e le forze dell'ordine

Tav. Il Procuratore generale e le Forze
dell’ordine
29/01/2021 di: Gianluca Vitale
Il 21 gennaio scorso si è concluso a Torino il dibattimento di appello nei confronti di 32 No TAV
imputati per reati connessi con lo sgombero della Maddalena del 27 giugno e con la successiva
manifestazione del 3 luglio 2011

(dibattimento rinnovato a seguito dell’annullamento della
precedente sentenza da parte della Cassazione). A quasi dieci anni dai fatti la Corte d’appello ha
significativamente ridimensionato l’impianto accusatorio originario pronunciando diverse assoluzioni
per i reati di lesioni (così respingendo la tesi dei pubblici ministeri secondo cui tutti gli imputati
erano responsabili per tutti i reati commessi nel contesto degli scontri con le forze di polizia),
ritenendo sussistente in alcuni casi l’attenuante di avere agito sotto la «suggestione della folla in
tumulto» e disponendo una consistente riduzione del trattamento sanzionatorio per tutti gli imputati
(nessuno dei quali ha riportato una pena superiore a due anni di reclusione).
A fronte di questo esito, il Procuratore Generale di Torino – con un comportamento ammissibile da
parte di qualunque privato cittadino, ma assai discutibile per chi dirige l’ufficio del pubblico
ministero territoriale – ha commentato la sentenza sulla stampa interpretandone le (future)
motivazioni e rivolgendo inviti al movimento No TAV (o, meglio, alla sua «parte sana») sulle condotte
da tenere. Stando al testo dell’articolo, il Procuratore Generale avrebbe inoltre affermato che le
Forze dell’ordine, in quelle giornate, furono «assolutamente prudenti, forse persino troppo», con
reazioni ferme ma sempre secondo le regole, e aggiungendo che se invece avessero ecceduto o
commesso reati «noi» (intendendo evidentemente l’intero apparato inquirente della magistratura
torinese, Procura e Procura generale) non «saremmo rimasti inerti e sostanziali complici di
illegalità». Il medesimo Procuratore Generale ha, poi, scritto una lettera aperta in cui definisce
«eversivo» il comportamento di chi «antagonizza lo scontro con metodi che si traducono in
aggressione, violenza, resistenza alle attività legittime che sono comandate alle forze dell’ordine».
Torna così al centro dell’argomentare la piena legittimità dell’operato dei tutori dell’ordine, a fronte
delle aggressioni eversive delle parti malate del movimento, a volte con la connivenza della parte
sana.
Il Procuratore Generale usa il termine «eversione» in un significato certamente suggestivo ma
atecnico. Il termine, nella accezione del nostro codice penale, ha una significato e una portata ben
lontani da quanto inteso dal Procuratore e non è certamente applicabile ai fatti di cui si occupa la
sentenza di cui si discute (né i pubblici ministeri avevano, nelle contestazioni, ravvisato tale finalità).
Anzi, l’unica volta in cui la Procura torinese aveva pervicacemente sostenuto la sussistenza della
consorella finalità di terrorismo in un fatto accaduto nella stessa valle i giudicanti, sino alla
Cassazione, avevano fermamente rigettato tale tesi. L’uso del termine, in ogni caso, dovrebbe essere
particolarmente cauto, soprattutto da parte di un alto magistrato, evocando scenari allarmanti e
lontani dai fatti dell’estate del 2011 a Chiomonte, e lontani anche da quanto oggi accade in Val di
Susa. A meno che non si ritenga – ma sarebbe contrario non solo allo spirito della legge, ma anche al
comune sentire – che ogni atto considerato contrario alla legalità sia anche e in quanto tale
«eversivo».
Ma, tornando ai fatti di quei giorni, quel che interessa sottolineare è che il Procuratore Generale
ritiene di dover strenuamente e acriticamente difendere l’intero operato delle Forze dell’ordine,
spingendosi fino ad affermare che esse hanno dato prova di eccessiva prudenza, facendo cosìintendere che avrebbero potuto e forse dovuto rispondere in maniera più dura e usare in maggior
misura la forza rispetto a quanto hanno fatto.
Ebbene, tale posizione pare essere figlia o di una scarsa e superficiale conoscenza degli atti o di una
concezione preoccupante dei rapporti tra cittadini e potere statuale e dei limiti nell’intervento di
quest’ultimo. Ovviamente preferiamo la prima ipotesi, anche tenendo che il Procuratore Generale
non ha partecipato all’istruttoria, è stato in aula solo in alcune udienze e non ha avuto modo di
sentire quello che molti difensori hanno detto (facendo riferimento ad atti processuali) e mostrato,
ovvero innumerevoli immagini e frammenti di video ripresi prevalentemente dalle stesse forze
dell’ordine in quelle giornate. Queste immagini mostrano in modo incontrovertibile agenti e
funzionari di polizia che raccolgono pietre e le lanciano contro i manifestanti (in vari scenari), o che
utilizzano i lacrimogeni sparandoli con lancio teso contro le persone (durante lo stesso processo è
stato detto da alcuni funzionari che l’utilizzo corretto è, ovviamente, il lancio a parabola), o che
colpiscono ripetutamente, anche con un bastone di legno, una persona arrestata e trascinata per
decine di metri. Ancora, durante le discussioni è stato fatto sentire l’audio di alcuni video (sempre
delle forze dell’ordine, e quindi certamente, anche secondo la Procura, autentici e non manipolati),
in cui si sentono funzionari che, durante una carica, urlano «ammazzateli», o che danno istruzioni a
chi ha il fucile lancia-lacrimogeni, invitandolo ad attendere che il manifestante esca da un riparo per
sparare e colpirlo direttamente. Tutti fatti che non paiono significativi di un approccio
eccessivamente prudente all’uso della forza. Per questo vogliamo ritenere che le parole del
Procuratore Generale siano dovute a una scarsa conoscenza degli atti. Certo, uno dei sostituti
procuratori che hanno partecipato all’udienza ha affermato che eventuali atti non del tutto conformi
alle regole sarebbero normali e comprensibili reazioni agli attacchi dei manifestanti, ma anche qui
vogliamo pensare che il sostituto si sia espresso male (egli che, invece, di certo conosceva gli atti
dovendone discutere in aula).
A questo punto viene da chiedere se siano stati aperti – visto il decantato «rigore dei nostri uffici» –
procedimenti penali per accertare l’identità di chi, tra le Forze dell’ordine, lanciava pietre (che non
risultano essere armamenti nella loro disponibilità e di cui è consentito l’uso); o di chi utilizzava gli
strumenti di lancio dei lacrimogeni come fossero fucili, con traiettoria tesa; o di chi dava istruzioni al
lanciatore di utilizzare proprio in tal modo l’arma (utilizzo che non risulta essere quello consentito);
o di chi incitava ad ammazzare i manifestanti che aveva davanti (non risultando essere nelle
legittime consegne l’istigazione all’omicidio); o, ancora, se siano stati aperti dei procedimenti per
comprendere se qualcuno dei molti funzionari presenti abbia potuto percepire tali condotte illecite
da parte di alcuni dei propri uomini e non abbia fatto nulla per fermarli (atteso che non impedire un
evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo); o abbia omesso di denunciare i fatti di
reato ai quali aveva assistito (direttamente o magari durante le innumerevoli visioni dei reperti video
effettuate in sede di indagini). La risposta è che, a quanto è dato sapere, l’unico fatto sul quale si è
indagato è il pestaggio del soggetto tratto in arresto che si è ricordato in precedenza; di tutti gli altri
innumerevoli episodi nulla si sa.
Non indagare su quei fatti significa, peraltro, o non averli notati ovvero ritenerli posti in essere
legittimamente e nel rispetto delle consegne. Ci auguriamo che sia una nostra ignoranza a farci
ritenere che non vi siano state indagini, e che il Procuratore voglia quanto prima smentirci,
elencando i procedimenti nei quali si è tentato di capire e magari si è anche capito chi sono stati i
responsabili di tali condotte (ed eventualmente anche di chi tali condotte ha consentito). Se, invece,
nessuna indagine è stata aperta, allora non ci resta che augurarci che corretta sia la prima delle
ipotesi formulate, benché curiosamente la mancata percezione dei fatti sia proseguita anche dopo
che le difese si sono sforzate di evidenziare e raccogliere in vari cd le immagini dei molti episodi.
Come è evidente, infatti, non è solamente in gioco la sussistenza o meno della scriminante della
reazione agli atti arbitrari di un pubblico ufficiale (secondo la quale non risponde del delitto di
resistenza chi ha reagito alle forze dell’ordine che abbiano ecceduto con atti arbitrari i limiti delleproprie attribuzioni), che potrebbe anche essere esclusa, ad esempio, quando la reazione sia
eccessiva o non immediatamente conseguente all’atto. Qui in gioco c’è la correttezza delle forze
dell’ordine nel gestire l’ordine pubblico o la commissione di reati da parte almeno di alcune di esse;
e, di seguito, in gioco c’è la corretta applicazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale o
la scelta di perseguire alcuni e non altri. E di ritenere (magari non giuridicamente ma
mediaticamente) eversori gli uni e legittimi esecutori di consegne gli altri.
Vengono alla mente le parole del decreto 16 giugno 2009 con cui il giudice per le indagini
preliminari ha archiviato alcune denunce per reati commessi dalle forze dell’ordine per lo sgombero
del presidio No TAV di Venaus del 6 dicembre 2005. A fronte delle innumerevoli dimostrazioni di
illiceità e di reati commessi da alcuni appartenenti alle forze dell’ordine, e di fronte all’impossibilità
di individuare i responsabili in ragione anche del silenzio dei molti funzionari presenti, il GIP ha
osservato: «nell’interesse generale, si faticherebbe a scegliere se preferire una categoria di
funzionari tanto sprovveduti, quali nel complesso si presentano, escludendo tutti di avere visto ciò
che almeno in qualcuno tra loro e almeno in parte avrebbero dovuto vedere, ma che non mentono
all’autorità giudiziaria, o una categoria di funzionari che mentono all’autorità giudiziaria, ma che nel
caso dell’operazione di cui si tratta, pur non essendo stati in grado di governare le forze comandate
in modo da impedire eccessi di violenza, di questi si erano resi conto». Scelta ardua, che non
vogliamo dover fare.