Convegno l'Aquila 30/10/09 - GIOVANNI INCORVATI


L’AQUILA – 30/10/09

RICOSTRUIRE NELLA DEMOCRAZIA

RICOSTRUIRE LA DEMOCRAZIA

 

Intervento - Incorvati

 

 

 

 

 

La Costituzione tra emergenza e ricostruzione.

A chi spetta il compito di “rimuovere gli ostacoli”

 

Quest’anno ricorrono diversi anniversari che ci riguardano. Il primo in ordine storico è legato ai provvedimenti in forma di decreti legge che furono presi all’inizio del 1909, a seguito del terremoto di Messina e di Reggio Calabria di fine dicembre 1908. Santi Romano, giurista a quell'epoca già abbastanza famoso, prese lo spunto da queste misure di ordine pubblico per scrivere in quello stesso anno un articolo di carattere teorico che fece epoca fin dal momento in cui apparve.

 

Trenta anni dopo, nel 1939, Romano, che ormai da tempo era presidente del Consiglio di Stato per nomina di Mussolini, stendeva per conto del ministro della Pubblica istruzione Bottai la prima legge di tutela del paesaggio, che ha dato l’indirizzo a tutta la legislazione successiva. A preparare il terreno era stato nel 1922 un altro ministro della Pubblica istruzione, Benedetto Croce, con l’istituzione per legge dei primi parchi nazionali, a cominciare ovviamente da quello d'Abruzzo, con sede nella natia Pescasseroli. Si può rinvenire una certa continuità ideologica non solo tra il Santi Romano del 1909 e quello del 1939, ma, più recentemente, sessanta anni più tardi, anche con la Giovanna Melandri del 1999, che nell’ottobre di quell’anno, come ministra dei Beni culturali, organizzò la prima conferenza nazionale sul paesaggio. Infine, a chiudere il cerchio, possiamo notare che proprio nell’ottobre 1909, contemporaneamente alle riflessioni di Santi Romano sui decreti del terremoto, si era svolto a Parigi il primo Congresso internazionale per la protezione dei paesaggi, in cui era stata codificata una nozione di paesaggio non lontana appunto dalle idee di Romano e di Croce.

 

Lisbona: di chi la colpa

Andiamo ancora più indietro e cerchiamo di cogliere alcune significative implicazioni dei terremoti nella storia della nostra cultura. Il primo e più famoso dibattito, che interessò l'intellettualità europea e aprì una frattura nell'illuminismo, gravida di conseguenze, fu quello del 1755 sul terremoto di Lisbona. La quasi completa distruzione di questa importante capitale avveniva mentre gli Aquilani stavano ancora ricostruendo la propria città dal terremoto altrettanto terribile del 1703. Il poema pubblicato da Voltaire subito dopo il disastro dava tutta la colpa a Dio e alle sue leggi necessarie, mentre assolveva indirettamente gli uomini. Era con il primo e non con questi ultimi che bisognava prendersela. In tal modo deismo e scientismo procedevano a braccetto e si sostenevano a vicenda. Rousseau non perse tempo e gli rispose in termini molto diretti, che furono la prima causa della rottura tra i due. Non è questione di Dio e delle sue pretese leggi - dichiarava - ma della società degli uomini e soprattutto di quegli speculatori che si sono arrogati il potere di costruire a mani basse in una zona sismica e soggetta ai maremoti.

 

Rousseau aveva appena pubblicato il Discorso sulla disuguaglianza e stava lavorando al Contratto sociale, che ne costituiva lo sviluppo e uscirà qualche anno dopo. Quest’ultima opera contiene al suo inizio un capitolo (il terzo del primo libro) che sviluppa un'affermazione drastica: “forza non fa diritto”. In particolare il lettore viene avvertito che “il più forte non è mai abbastanza forte se non trasforma la sua forza in diritto”. Ne deriva che chi, come a Lisbona, si è impossessato del territorio con la forza, anche economica, e ha acquistato il diritto di specularci sopra, possiede solo un “preteso diritto”. Il principio secondo cui forza non fa diritto è appunto uno dei “principi del diritto politico” - che sono l'oggetto centrale del Contratto sociale e ne costituiscono il sottotitolo. D’altra parte i diritti, per non essere ingiusti, devono rispondere ai principi di uguaglianza e di libertà (capitolo 11 del secondo libro del Contratto). Ma non basta, l'insieme dei tre principi costituisce un tutto dinamico, nel senso che, come si esprime Rousseau nello stesso capitolo, “siccome la forza delle cose tende a distruggere l'uguaglianza, la forza della legislazione deve tendere continuamente a mantenerla”, in modo da mantenere anche la libertà, che ne dipende. La radice della disuguaglianza delle persone da Rousseau viene riconosciuta nella disuguaglianza che viene a stabilirsi e si sviluppa tra le cose, sulla base anche di catastrofi naturali. È grazie a queste che alcuni possono trasformare il proprio potere sulle cose in privilegi; e se è così, allora la legislazione deve andare in senso opposto a quello delle cose.

 

Chiaramente si avverte il legame con i fatti di Lisbona. Là un governo legittimo avrebbe dovuto mettere mano a misure non solo di prevenzione ma anche di ricostruzione in contrasto con la speculazione. Nella dialettica tra fatto e diritto, i diritti non possono essere ridotti a legittimazione del fatto, proprio perché forza e fatto non solo non fanno diritto, ma anzi creano spesso il suo contrario, l'ingiustizia.

 

Messina, Reggio: lo stato d’eccezione

La questione fu ripresa esattamente in questi termini da Santi Romano, nell'articolo citato Sui decreti-legge e lo stato d'assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio Calabria. Apparso nel 1909 sulla "Rivista di diritto pubblico", ebbe (come ha mostrato Giorgio Agamben) una certa risonanza, anche a livello internazionale, un po' come il dibattito degli illuministi di un secolo e mezzo prima. Va ricordato che dopo Lisbona in Europa non c'erano stati forti terremoti che avessero investito città di una certa dimensione. Questa volta a far la parte dell'anti-Rousseau era proprio Santi Romano, con un argomento ben preciso. Secondo lui, alla base dello stato di assedio proclamato all'indomani dal terremoto non c'era altro che lo stato di necessità. La necessità non ha legge: questo è un antico detto, un brocardo. L'originalità di Romano stava nell'aggiungere che invece la necessità fa legge. In epoca moderna la rivoluzione scientifica non solo ha introdotto l'idea di leggi deterministiche, necessarie, ma avrebbe cambiato totalmente anche il quadro teorico generale: la necessità non ha nessuna legge giuridica alle proprie spalle, ma ora la fa essa stessa e la legittima sulla base di leggi scientifiche rigorose. Romano fa l'esempio di Messina e di Reggio: qui, dice, a differenza di tutti gli altri terremoti, c'è stata un'enorme limitazione della libertà che non ha precedenti nella storia dell'Italia unita, e nemmeno in quella dell'Europa degli ultimi decenni. Sulla base dello stato d'assedio proclamato dal governo, la popolazione è stata costretta, a differenza di altre emergenze, ad un esodo forzato sia da Messina che da Reggio. In circostanze simili il governo ha il potere non solo di limitare la libertà e di obbligare con la forza, ma può sospendere o disattivare la giurisdizione ordinaria. Come riconosce Romano stesso, i giudici possono essere sempre un grosso ostacolo, soprattutto nelle emergenze. Allora essi vengono messi da parte, e tutto questo naturalmente limita l'uguaglianza davanti alla legge. Così alle limitazioni della libertà e dell'uguaglianza dovute a cause naturali si aggiungono, con effetti di sinergia, le limitazioni a entrambe prodotte dall’azione del governo. Secondo Romano è una novità straordinaria che deve farci riflettere, in quanto porta a sconvolgere il quadro giuridico con altrettanta straordinarietà.

 

Con Santi Romano la necessità diventa dunque la norma fondamentale dell'ordinamento e questo aspetto della sua teoria poi ha avuto un'influenza nel dibattito a distanza tra Carl Schmitt e Hans Kelsen, i due più noti giuristi del XX secolo. Schmitt l'accoglie naturalmente con entusiasmo e lo utilizza per portare alle estreme conseguenze la propria teoria decisionista. Ma qui diventa evidente anche tutta la debolezza dell'impianto teorico di Romano. Il suo concetto di necessità, proprio in quanto prende l'avvio da leggi deterministiche, si rivela poi sul piano giuridico del tutto indeterminato. La necessità per lui è sospesa in un limbo tra l'essere e il dover essere: è un fatto? è un diritto? Non si sa, ma è proprio questa indeterminazione che permette di decidere di volta in volta qual è lo stato di eccezione, chi è il sovrano e chi è il suddito.

 

Sudditanza contro soggettività

Kelsen, all'opposto, rileva l’insostenibilità di questa teoria in quanto fondata su una fallacia naturalistica, ossia sulla deduzione del dover essere dall'essere, dallo stato di fatto. La sua critica, squisitamente metodologica, raccoglie tutta una tradizione teorica che da Hume, attraverso Rousseau e Kant, arriva fino a noi. Rousseau, che conosceva bene il pensiero di Hume (presso il quale trovò anche rifugio in Inghilterra), la rielaborò anche sul piano giuridico e in termini politici radicalmente alternativi. Se gli Stati che si criticano nascono di fatto dalla disuguaglianza e dalla mancanza di libertà, lo Stato dei diritti non solo deve fondarsi sui principi di libertà e di uguaglianza, ma, come abbiamo già visto, deve combatterne le limitazioni che continuamente si ripresentano e che tendono a reintrodurre rapporti di sudditanza. Nello Stato dei diritti da lui prefigurato il termine sujets non indica più dei sudditi, ma dei soggetti che partecipano agli affari pubblici.

 

Sulle teorizzazioni del 1909 Santi Romano costruirà non solo la propria carriera accademica, che lo porterà ai vertici amministrativi dello stato fascista, ma anche una teoria delle istituzioni del diritto pubblico italiano centrata proprio sul rapporto sovrano-sudditi. Quel che è più importante è il fatto che tale teoria già prima dell'epoca della Costituente era stata tradotta da Costantino Mortati in una teoria della costituzione materiale, considerata come la fonte di legittimazione e di trasformazione della costituzione formale. Solo che in tale sviluppo teorico il sovrano che materialmente decide sullo stato d'eccezione è diventato l'oligarchia partitica. Una teoria questa che, in modi più o meno inconfessati, è rimasta molto radicata tra i nostri costituzionalisti e autori di diritto pubblico, anche dopo l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana; e non solo tra di loro, perché poi le teorie hanno effetti pratici sia di politica legislativa che nelle corti, comprese quelle costituzionali. E qui arriviamo alla questione di fondo di questa sera.

 

Cosa c'entra il terremoto con la Costituzione italiana? C'è qualche articolo che ha a che fare con il terremoto? Tra i “Principi fondamentali” incontriamo subito l'articolo 3, che al comma 1 pone il principio dell'uguaglianza di tutti davanti alla legge. Proseguiamo quindi con il comma 2, ispirato da Lelio Basso, che a sua volta si ispirava a Rousseau. Esso riprende in forma rovesciata i concetti espressi da Santi Romano a proposito del terremoto di quaranta anni prima, quando aveva evidenziato la limitazione della libertà e dell'uguaglianza di fronte alla legge. Messo in guardia anche da tali teorizzazioni e dalla loro diffusione, il costituente prospetta qui l'esistenza di ostacoli che, “limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza”, impediscono la realizzazione di una serie di altri diritti fondamentali. E proprio per questo stabilisce, all’inizio del comma 2, che “è compito della Repubblica rimuovere” tali “ostacoli”.

 

L’effettiva partecipazione, la più ampia

Quali sono dunque questi diritti fondamentali? Il comma 2 ne cita espressamente un paio: “il pieno sviluppo della persona” e “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Si badi bene: non parla di “tutti i cittadini” ma di “tutti i lavoratori”, riconosciuti come parte integrante dell’”organizzazione” della “Repubblica” e del “Paese”.

 

Facciamo il caso, che ci tocca così da vicino, del dopo terremoto aquilano: anche gli immigrati abitanti nella zona del cratere devono poter partecipare con i cittadini alla ricostruzione. Il Governo italiano, la Giunta regionale abruzzese, quella provinciale aquilana e quelle dei comuni del cratere non esauriscono dunque “la Repubblica” né “il Paese”, ma devono predisporre tutti gli strumenti idonei a favorire la partecipazione di tutti. La fine di questo secondo comma si collega così, con una connessione ad anello, al suo inizio. E non potrebbe essere altrimenti, perché se questo articolo non si leggesse così rimarrebbe solo la lettura schmittiana, che è poi quella che la Corte costituzionale ha adottato in tutti questi anni. Propriamente, anzi, quest’ultima non ha dato nessuna lettura, visto che ha rimosso completamente l'articolo 3 comma 2 dal proprio orizzonte interpretativo. In sostanza i suoi argomenti si riducono a questo: “la Repubblica” sono il Parlamento e le regioni quando legiferano, o chi per loro. Se essi non legiferano, noi Corte costituzionale cosa c'entriamo? Tutto dipende dal sovrano che ha il potere di decidere, secondo l'idea di Carl Schmitt, la quale è il perfezionamento di quella di Santi Romano, entrambe magari rivisitate e corrette da Costantino Mortati.

 

Il peso di questa tradizione ideologica si fa sentire nel modo più evidente riguardo alla legge istitutiva del Servizio Nazionale della Protezione Civile, la n. 225 del 1992. In occasione di “calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari” l’articolo.5 commi 1 e 2 attribuisce al Governo il potere di dichiarare lo stato di emergenza e di emettere su questa baseordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico”. Tra questi principi da rispettare va sicuramente compreso anche quello dell’articolo 3 comma 2, che, come abbiamo visto, figura tra i “principi fondamentali” della Costituzione. Esso ha una funzione di controllo, il controllo da parte di tutti, senza il quale i poteri attribuiti al Governo diventerebbero dittatoriali. E in effetti l’articolo 18 comma 1 della stessa legge richiama i termini stessi dell’articolo 3 comma 2 della Costituzione: “Il Servizio Nazionale della Protezione Civile assicura la più ampia partecipazione dei cittadini (…) alle attività di previsione, di prevenzione e soccorso”, evidentemente al fine di ridurre il più possibile le limitazioni alla libertà a all’uguaglianza derivanti da quelle calamità e di rimuovere le nuove che ne possono sorgere.E' chiarissimo che qui esiste un obbligo specifico, per una determinata istituzione della Repubblica con competenza primaria in un preciso campo di attività, di adottare tutti i comportamenti necessari a garantire la più ampia partecipazione dei cittadini – “la più ampia” significa cittadinanza in senso lato, comprendente certo tutti i lavoratori. E in questo senso si può dire che nella legge istitutiva della Protezione civile sono stati inseriti gli anticorpi che devono proteggerla da usi strumentali e autoritari.

 

L’Aquila: troppo presto, troppo tardi

Nel 2009 invece il Governo cosa fa? Dà attuazione non alla linea della Costituzione, ma a quella prospettata un secolo prima da Santi Romano, con tutte le implicazioni che ne derivano per la libertà e l'uguaglianza, a cominciare dell'esodo forzato degli abitanti e dall’accumulo al loro posto delle macerie nelle piazze e nelle strade del centro, il cui mantenimento viene fatto coincidere con tutta la durata dello stato di emergenza. Una durata che dovrà protrarsi – ordina il decreto del Presidente del consiglio del 6 aprile, che purtroppo pochi hanno preso la briga di andare a leggere – almeno fino al31 dicembre 2010. Sul modello sviluppato un secolo prima, la “dichiarazione dello stato di emergenza” è una sorta di dichiarazione di guerra che lancia l’allarme, ma solo a catastrofe ormai avvenuta. L’apparato concettuale qui utilizzato non potrebbe essere più rivelatore della linea di militarizzazione spinta che è stata messa in atto nei campi di accoglienza temporanea aperti tutt’intorno al centro storico de L’Aquila.

 

Poi, sempre sulla stessa traccia, il 28 aprile 2009 c'è stato il decreto legge n. 39 sul terremoto in Abruzzo, convertito in legge due mesi dopo dal Parlamento (legge n. 77 del 24 giugno). Come sottolineavano poco fa i colleghi e amici, esso ha disposto all'articolo 5 la sospensione dei processi: così, ancora una volta, vengono limitati il diritto alla giurisdizione e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, garantiti rispettivamente dall’articolo 24 e dall’articolo 3 della Costituzione. Inoltre tutto l'insieme di tali misure, sia quando dispongono l'esodo forzato, sia allorché limitano il diritto alla giurisdizione, contravviene alla legge istitutiva della Protezione civile. Come abbiamo appena visto, la legge 225 del 1992 legittima l'azione di governo nell'emergenza, ma solo in quanto venga data attuazione al principio costituzionale della partecipazione. Tuttavia la consultazione dei cittadini viene impedita proprio dall’insieme di tali misure. Infine, alla Protezione civile vengono attribuiti poteri straordinari non solo riguardo alla fase dell’emergenza, ma anche per i compiti propri della ricostruzione. Così queste due fasi, che la legge tiene sempre ben distinte, vengono mescolate e confuse tra di loro in modo del tutto illegittimo. In deroga alle leggi urbanistiche e paesaggistiche (vedi il cosiddetto “piano c.a.s.e.”), si mettono i cittadini di fronte al fatto compiuto. Si interviene troppo presto in modo definitivo là dove non si dovrebbe costruire, e troppo tardi là dove occorrerebbe ricostruire. Ma così si impedisce anche l’attuazione di un altro fondamentale principio costituzionale, che riguarda anch’esso i terremoti. Mi riferisco a quello contenuto nell'articolo 9 della Costituzione, che dà una definizione a dir poco innovativa del paesaggio e della sua tutela.

 

D’Annunzio, Croce: paesaggio e non paesaggio

Fino al 1948 la nozione di tutela del paesaggio che circolava in modo pressoché esclusivo, anche a livello internazionale, era quella prevalsa nel già citato congresso di Parigi dell’ottobre 1909. I paesaggi come quadri da apprezzare e da preservare, in quanto rappresentazioni di bellezze fuori dal comune. Come accennavo, questa idea è legata strettamente a quelle di Santi Romano sullo stato di eccezione. Un modo di vedere sintetizzato da par suo da D’Annunzio con il celebre motto pronunciato nel corso della sua visita a una delle prime realizzazioni del dopo terremoto del 1908, su cui si era polarizzata tutta la sua attenzione, ossia il lungomare di Reggio Calabria, definito da lui come ”il più bel chilometro d’Italia”. La “ricostruzione” aveva dato la priorità a operazioni d’immagine che costituivano l’altra faccia, quella più fruibile, di uno stato di eccezione destinato a durare negli anni. E l’altra faccia, questa volta assai poco estetizzante, della medaglia sarà offerta un secolo dopo dalle battute berlusconiane, come quelle sulla vacanza in campeggio degli sfollati aquilani internati nei campi militarizzati, o come quella tutta ideologica sull’alternativa “c.a.s.e. o container”, che esclude ogni progettualità e produce solo accozzaglie di abitazioni definitive e alienanti.

 

L’idea del paesaggio come qualcosa di statico, di una bellezza eccezionale da incorniciare, era del tutto consona all’estetica crociana che seleziona la “poesia” da ammirare e di cui far bella mostra, rispetto a tutto il resto da buttar via, in quanto “non poesia”, quasi in una discarica. Venne perciò sviluppata in un primo momento con la legge del 1922 sui parchi nazionali, che in particolare istituiva il Parco Nazionale d’Abruzzo, il cui nucleo centrale si trova appunto nella provincia de L’Aquila. Ma la legge che ha fissato una simile idea in termini giuridici, versione “tutela del paesaggio”, è quella scritta da Santi Romano per Bottai nel 1939. Una linea poi ripresa e fatta propria dalla Conferenza nazionale sul paesaggio del 1999, sostenuta allora da tutte le forze al governo, perfino quelle ambientaliste, e che si è trasmessa fino ai giorni nostri.

 

Una concezione ben diversa del paesaggio, non statica e selettiva, ma plurale, dinamica e interattiva, era invece presente nella cultura europea fin dai tempi della risposta di Rousseau al poema di Voltaire sul disastro di Lisbona. Allora il Ginevrino aveva marcato questo modo di intendere il nostro rapporto con ciò che ci circonda attraverso un nuovo significato dato alla parola “identificazione”. Se noi identifichiamo certi rapporti, certe dinamiche del mondo esterno, è perché noi li mettiamo in relazione con le nostre dinamiche soggettive, con il nostro passato, con il nostro futuro: ci identifichiamo con essi. Rousseau porterà questo modo di vedere alle estreme conseguenze nei suoi ultimi scritti, quelle Fantasticherie di un passeggiatore solitario, in cui ogni “passeggiata” esprime un’interazione con paesaggi a loro volta in movimento. Per quel che qui ci interessa, è da sottolineare che nel Contratto sociale e soprattutto negli scritti politici più tardi il dialogo dei soggetti con il loro territorio si traduce, grazie alla partecipazione di tutti, in misure in grado di assicurare una sorta di stabilità dinamica a questo rapporto.

 

Promuovere senza rimuovere?

Nel riprendere questa linea di pensiero l’articolo 9 della Costituzione stabilisce una cesura netta con la legge Bottai. La tutela del paesaggio è inserita e strettamente collegata a un duplice contesto dinamico: da una parte quello dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnologica (comma 1), dall’altra quello della tutela dell’intero patrimonio storico e artistico della Nazione (comma 2). È perché il paesaggio per sua natura è in movimento, che esso deve essere oggetto della più ampia progettualità. Ma la formulazione stessa dell’articolo 9 stabilisce anche una connessione logico-temporale immediata con l’articolo 3 comma 2: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli” – così comincia quest’ultimo articolo. “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura” – è questo l’inizio dell’articolo 9. E come potrebbe essa “pro-muovere” sviluppo e tutela, senza prima “ri-muovere” gli ostacoli che impediscono la partecipazione di tutti i lavoratori e senza considerare questi ultimi come parte attiva della Repubblica?

 

Ecco dunque perfettamente delineate, entro il quadro concettuale offerto dalla Costituzione, le linee operative che essa detta per una situazione come quella del dopo terremoto a L’Aquila. Tutti sono legittimati a prendere l’iniziativa. E hanno il diritto di dare l’avvio, come lavoratori, alla rimozione, anche simbolica, degli ostacoli. Ostacoli a volte fisici, spesso giganteschi e con una forte componente metaforica, che non solo limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, ma impediscono il pieno sviluppo della persona umana. “Sviluppo”: è questa l’altra parola comune ai due articoli, che conferma la loro continuità e apre nuovi orizzonti. Per il pieno sviluppo delle persone non sarà sufficiente una qualsiasi rimozione degli ostacoli, ma è necessaria la partecipazione di tutti. E occorre che questo sviluppo entri in risonanza, si identifichi con altri sviluppi, in primo luogo quelli della cultura e della ricerca. Di qui il ruolo centrale della tutela del paesaggio. Se la Repubblica è costituita soprattutto dai cittadini e dai lavoratori tutti, allora l’attenzione delle istituzioni non può focalizzarsi principalmente sul patrimonio artistico, come invece era previsto nella versione originaria della Costituzione. Occorre invertire le priorità, come presto si rese conto la Costituente stessa e come poi fece in effetti nel corso dei propri lavori. Nella versione definitiva l’articolo 9 infatti non è più semplicemente un aspetto della pubblica istruzione, ma entra a far parte dei principi fondamentali della repubblica. È il paesaggio quotidiano, quello con cui ciascuno di noi si identifica, che, attraverso la partecipazione, innalza l’”organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (fine articolo 3 comma 2) a organizzazione e “tutela del paesaggio”.

 

Alla luce dell’articolo 9, i termini lunghissimi concessi allo stato di emergenza nella situazione aquilana (come abbiamo visto, fino al 31 dicembre 2010) potrebbero essere giustificati solo dai tempi necessari per rimuovere quegli ostacoli materiali che della ricostruzione finiscono con l’ostruire perfino gli spazi mentali e progettuali. Ma così non è stato, e non lo è ancora oggi.E proprio il fatto che le istituzioni della Repubblica latitano fa emergere, in tutta la sua portata, la questione dell’effettiva partecipazione dei lavoratori. Col prendere in mano loro stessi la rimozione degli ostacoli, cittadini e lavoratori tutti potrebbero anche avviare una congrua tutela del paesaggio che vada in direzione di una diversa “organizzazione politica, economica e sociale” del territorio.

 

No people, no landscape

Così arriviamo all’ultimo punto che vorrei toccare. Si tratta degli sviluppi internazionali più recenti sotto il profilo della tutela del paesaggio, anche come conseguenza della svolta rappresentata dalla Costituzione italiana. Mi riferisco a un atto fondamentale come la Convenzione europea sul paesaggio, firmata a Firenze nell’ottobre 2000 da molti paesi membri del Consiglio d’Europa tra cui l’Italia, che l’ha ratificata nel 2006 e ha infine emanato i decreti attuativi con cui è stata recepita a tutti gli effetti nel nostro ordinamento. Qui i due elementi chiave della nuova nozione di paesaggio – l’aspetto dinamico e il suo essere parte dell’identità comune di ciascuno – impongono esplicitamente il coinvolgimento del pubblico in tutte le fasi in cui si articola la sua tutela, e attribuiscono precisi diritti. Si tratta, in particolare, del diritto di ognuno di partecipare all’identificazione dei paesaggi, che è quello più importante; del diritto alla loro qualificazione e valutazione (articolo 6.C); e infine del diritto di essere consultati nella definizione degli obiettivi di qualità paesaggistica (articolo 6.D). Sono diritti di autodeterminazione, in quanto mettono in correlazione identità personale e identità collettiva. Perciò non solo incontrano forti resistenze in sede applicativa, ma si scontrano apertamente con l’uso del potere di ordinanza “in deroga”, che emerge così clamorosamente a L’Aquila.

 

Il problema dunque di chi debba “rimuovere gli ostacoli” posti sulla strada di tali diritti si ripresenta qui come prioritario. È un aspetto che viene sintetizzato molto bene dal titolo di un libro fondamentale, apparso proprio in questi giorni, scritto da Riccardo Priore, il funzionario italiano del Consiglio d’Europa che ha avuto un ruolo di primaria importanza nel fare in modo che la convenzione andasse in porto: No People, No Landscape. La Convenzione europea del paesaggio: luci e ombre nel processo di attuazione in Italia. Non si dà paesaggio senza le persone che si identificano in esso. Questo libro lo vedrei molto volentieri nelle mani degli Aquilani.