La criminalizzazione dei movimenti a partire da Genova: intervista all'Avv. Gilberto Pagani

La criminalizzazione dei movimenti a partire da Genova: intervista all'Avv. Gilberto Pagani

Il G8 di Genova rappresenta uno spartiacque per intere generazioni: c’è una prima e un dopo Genova. E’ invero per quanto riguarda i sentimenti provati dalle persone che c’erano o che hanno assistito inermi alla mattanza in diretta su ogni media, è innegabile per ciò che concerne le pratiche politiche e l’organizzazione dei movimenti di protesta. 

Genova è stata anche però l’inizio di una deriva securitaria da parte degli Stati nell’affrontare l’eterna questione dell’ordine pubblico e della sicurezza, sia tramite l’emanazione di leggi che permettano di rendere legali le pratiche repressive, sia tramite i processi giudiziari.

In Italia tale deriva securitaria oggi si manifesta perfettamente negli arresti No Tav degli scorsi mesi, come si è precedentemente manifestata all’estero, ad esempio, nella gestione del G20 di Londra ai casi di alta risonanza mediatica e più eclatanti come quelli delle torture legalizzate di Guantanamo e dell’assassinio legale e giustificato di Bin Laden.

- Le pratiche messe in atto in piazza contro le grandi proteste di massa hanno iniziato ad essere sempre più vicine alle pratiche militari: dai pestaggi indiscriminati, alla pratica anglosassone del “Kettling” (con la quale la Polizia accerchia “Militarmente” il nemico, nella specie i protestanti, spingendolo in un area delimitata senza via di fuga, usata, ad esempio, durante il G20 di Londra nel 2009); dall’utilizzo di infiltrati nei movimenti, dagli arresti e fermi preventivi alla istituzione di data-base dei dimostranti ed alla “schedatura” tramite fotografie durante i cortei e le proteste.

- I processi in Tribunale hanno visto esiti sempre più simili: impunità per chi commette reati nel nome del potere, estrema severità per gli altri; servano solo come esempio le altissime condanne italiane per i fatti del 15 ottobre 2011 e le assoluzioni dei vertici della Polizia per i fatti alla scuola Diaz durante il G8 di Genova.

- Vi sono poi ulteriori pratiche che mirano alla neutralizzazione preventiva dei movimenti, tramite gli arresti e le perquisizioni preventive e attraverso  il controllo dei social media in genere. In Spagna, per citare un esempio assai recente, si sta discutendo di ordine pubblico: tra le proposte al vaglio vi è anche quella di imporre dei controlli sui social network e convertire in reato penale ogni incitazione o organizzazione di protesta. 

Nella società contemporanea si può parlare, così, di  un vero e proprio “diritto penale del nemico”  in cui si moltiplicano gli attentati ai diritti fondamentali e si sospendono le più basilari garanzie dei diritti della persona in ragione dell’emergenziale pericolosità del nemico stesso, giustificando così ogni atto da parte del potere.

Con il pretesto di proteggere l’ordine pubblico nascono nuove “figure pericolose”, che smettono di essere considerate persone per diventare esclusivamente “nemici” da neutralizzare.

 Come spunto di riflessione su quanto detto si riporta l’intervista di Andrea Leoni per il E mensile all’Avv. Gilberto Pagani, membro del Legal Team Italia e dell’Associazione Avvocati Europei Democratici e da sempre impegnato nella difesa dei diritti umani e dei movimenti di protesta.

Inoltre si segnala la conferenza intitolata “Criminal law of the enemy” che si terrà a Bruxelles in 25 maggio 2012 e si pubblica molto volentieri il link al video-intervista girato sempre da Andrea Leoni come promo al convegno. Buona lettura!

Come giudica le varie misure in materia di ordine pubblico che i governi europei, quello spagnolo in primis, si apprestano a discutere?

Diciamo che sia quello che si sta discutendo in Spagna sia una proposta di legge presentata recentemente in Italia da alcuni esponenti di centro destra sono delle leggi che inaspriscono di molto le pene per determinati comportamenti. In Spagna va fatta una notazione particolare: le violenze di strada sono equiparate ad atti di terrorismo. C’è da dire che lo Stato iberico ha una legislazione un po’ diversa dalla nostra, le leggi delle regione autonome son parecchio repressive. È però sicuramente in atto un inasprimento delle pene. Anche questa nuova proposta di legge che nessuno sa se verrà accolta e che è stata presentata da alcuni deputati di destra parlava di inasprire le pene per manifestazioni non autorizzate, per blocchi stradali per tutte quelle espressioni di lotta che sono comunemente condotte.

Infatti lei parlava nel documento dell’ottobre del 2004 ad un convegno di Bordeaux di una nuova concezione del reato associativo. In riferimento, invece, ai nuovi sviluppi soprattutto a quanto propone il governo Rajoy come vede questo nuovo andamento?

Molto male. Quel mio articolo che risale ad alcuni anni fa denotava tutte cose che ora sarebbero in corso di attuazione, ma ciò che è importante, è che c’è stato un mutamento di obiettivo. All’epoca tutta l’attenzione era data al terrorismo, o sedicente terrorismo, e alla lotta antiterroristica. Oggi, invece, gli aspetti sociali sono molto più importanti, perché l’aggravarsi della crisi sta comportando ovunque la presenza di un numero maggiore di proteste, anche molto più radicali e che tendenzialmente vengono punite in maniera più severa. Altra cosa importante è la militarizzazione. Come si vede in Italia questo concetto è pratica comune e in Val Susa c’è l’esercito ovvero un contingente di alpini reduci dall’Afghanistan. Che cosa ha a che fare l’esercito con l’ordine pubblico? Poi fondamentalmente c’è un’occupazione militare nel territorio per cui le installazioni per il tav sono considerate siti militari e quindi l’intrusione in questi luoghi viene considerata come intrusione in un sito militare. E’ una pesante presenza su tutto il territorio e purtroppo è una esempio di come la militarizzazione dell’ordine pubblico sia entrata nei programmi dei governi ed in particolar modo del nostro.

Non pensa che anche in Italia sia in atto una vera e propria criminalizzazione dei movimenti di protesta?

Certamente si. E il dato è drammaticamente importante, basti guardare la vicenda di Torino dove alcune persone sono ancora in carcere per reati di resistenza che non sono reati di violenza. Non c’è neanche una vera e propria accusa per i detenuti. Purtroppo è molto importante la sentenza che c’è stata circa un mese fa, quando a due giovani che furono arrestati dopo la manifestazione del 15 ottobre a Roma sono state comminate pene pesantissime: cinque anni con rito abbreviato, cioè otto anni secondo il rito ordinario. Pene che nessuno si attendeva e che vanno molto oltre la media di queste pene. Da parte della magistratura c’è un convinto adeguarsi rispetto a questa linea fortemente repressiva.

Fondamentale è anche il ruolo dei media.

La storia dei media è duplice da una parte i corportat media o i main stream che formano l’opinione pubblica e che per qualsiasi episodio minimo fanno nascere delle gazzarre e dei can can amplificando di molto. Ancora una volta la Val Susa è paradigmatica per molte cose: quando ad esempio ci sono dei piccoli scontri o magari vengono lanciati dei sassi, immediatamente i giornali ne parlano in prima pagina. Quando una manifestazione come quella di ottobre ha una partecipazione di decine di migliaia di persone, il fatto viene relegato nelle pagine interne e non viene utilizzato. Il problema è proprio questo: l’utilizzo di queste notizie. Ed anche il lessico è fondamentale, infatti succede spesso che ci siano delle contestazioni verbali, che rimangono solo verbali, che magari non saranno molto educate, ma rimangono solo verbali ripeto e che vengono bollate dai giornali come violenza e terrorismo. Dall’altra, i media indipendenti fanno in modo che quello che avviene sia sotto l’occhio di tutti, perché poi viene diffuso su tutta la rete in maniera virale tramite ogni mezzo. Ancora una volta dobbiamo risalire a Genova, la presenza di centinaia di persone che giravano con la telecamera ha fatto sì che si riuscisse ad avere ad una grande quantità di materiale che poi è stato molto utilizzato anche nei processi per smontare false accuse. Il caso della Grecia [il caso è del fotoreporter brutalmente picchiato dalla polizia, ndr] non è il primo. Chi cerca di documentare quel che succedendo può essere vittima delle attenzioni della polizia. Un ultimo episodio di questi giorni è poi che l’accesso al cantiere del tav è stato vietato ad alcuni giornalisti. Alcuni possono entrare e sono embedded (esattamente come in una situazione di guerra) altri invece non sono graditi dalle autorità e vengono bellamente esclusi privando il diritto di tutti noi quello di sapere ciò che accade.