il manifesto - 11/11/2009 - articolo sul convegno dell'Aquila del 30/10/2009
di Eleonora Martini - INVIATA A L'AQUILA
Terremotati come cavie
L'Aquila, un laboratorio per la legislazione d'emergenza. La palestra per i nuovi poteri della Protezione civile
Non solo L'Aquila, certo. Prima c'erano stati i rifiuti in Campania, la sicurezza nelle strade, il pericolo "zingari", gli incendi boschivi, il terrorismo e la «crisi internazionale dovuta alla guerra in Iraq». Poi si era replicato a Palermo, e pure a Viareggio. Ma L'Aquila è stata ed è tuttora un laboratorio, un campo di sperimentazione per affinare i poteri e la legislazione dell'emergenza. In modo che, in futuro, con un salto di qualità che superi le limitazioni temporali, si possa utilizzare lo stesso schema di governo per gestire le centrali nucleari, ad esempio, o qualsiasi altro luogo si voglia definire «strategico». Per riflettere sul paradigma dell'emergenza e sulle limitazioni della libertà imposte nelle fasi emergenziali, sulla militarizzazione dei territori e sui nuovi poteri della Protezione civile - cominciando dal "modello L'Aquila" - si sono incontrati nel capoluogo abruzzese giuristi ed esperti, docenti, magistrati e avvocati per il convegno «Ricostruire nella democrazia, ricostruire la democrazia», organizzato dall'associazione Legal Team Italia (Lti).
È l'avvocato Gilberto Pagani, presidente di Lti, a dipanare il filo del discorso. In principio, fin dall'11 settembre 2001, l'emergenza era securitaria. E in suo nome tutto poteva essere giustificato: «Procedure legali che venivano soppiantate da procedure sommarie» in «esenzione e in deroga dei diritti dei cittadini». Nel novembre 2007, per esempio, ricorda Pagani, il governo di centrosinistra decreta lo stato di emergenza nazionale per la questione "zingari". Rom e sinti in Italia ce ne sono da sempre, la maggior parte non è straniera. Eppure con il pacchetto sicurezza e il ddl Amato si procede a legiferare per fronteggiare la "crisi", si militarizzano i campi e si affida alla Croce rossa un ruolo inedito, quello del censimento e della schedatura di tutti i "nomadi". Allo stesso modo è stato trattato il problema dei rifiuti a Napoli e a Palermo, trasformando una situazione certamente gravissima che però poteva essere affrontata con misure ordinarie in un fenomeno emergenziale, militarizzando i siti e, in deroga alle leggi vigenti, proibendo l'esercitazione dei diritti fondamentali come quello di manifestare, o bypassando i limiti ambientali e paesaggistici di pianificazione e di difesa del suolo. Un precedente di «giurisdizioni parallele», di «eccezioni permanenti nell'ordinamento giuridico». Poi, «l'estendersi di norme che limitano i diritti e le libertà ha creato la crescita di reati legati alle proteste e alle manifestazioni», spiega ancora Pagani.
Ma è con il terremoto dell'Aquila che viene fornita una splendida occasione: si tratta in questo caso di un'emergenza reale, di una calamità naturale vera, forse l'unica tra tutte che «per intensità ed estensione» poteva effettivamente dover essere «fronteggiata con mezzi e poteri straordinari», come prevede al punto C) l'articolo 2 della legge 225 del 1992 che regolamenta il corpo della Protezione civile, fondato nel 1988. Negli altri casi, come fa notare Ezio Menzione, presidente della Camera penale di Pisa, si rientrava piuttosto nelle altre due tipologie definite dalla legge: «eventi connessi con l'attività dell'uomo» che possono essere «fronteggiati in via ordinaria» mediante «interventi attuabili dai singoli enti e amministratori competenti» (punto A), o da più enti e amministratori coordinati (punto B). «L'intervento della Protezione civile così come lo vediamo oggi, che sbaraglia enti e rappresentanze, - puntualizza Menzione - dovrebbe essere limitato all'ipotesi C): calamità naturali, catastrofi o altri eventi che per intensità ed estensione debbano essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari». Ma così non è: negli ultimi 10 anni la Protezione civile ha avuto la gestione di ben 592 stati d'emergenza dichiarati.
Occasione d'oro, dunque, il terremoto in Abruzzo per poter mettere a frutto il ricorso al sistema dell'emergenza consentendo due risultati principali: «poter derogare alle leggi vigenti attraverso atti di governo e ordinanze (per l'emergenza terremoto sono 36) non sottoposte a vaglio del legislatore e non controllate», e poter «fare emergere la volontà dell'esecutivo e imporla». A L'Aquila, dal 6 aprile - come hanno testimoniato anche Stefano Frezza di Epicentro solidale e l'ingegnere Annalisa Taballione, del Collettivo 99 - si è potuto assistere alla costruzione di una sorta di «stato nello stato». «Non ci sono gli stessi diritti e le stesse leggi che valgono altrove. Sembra piuttosto un territorio in guerra, sottoposto a una sottrazione quotidiana di spazi e libertà di parola e di movimento - accusa l'avvocata Simona Giannangeli che difende alcuni familiari delle vittime della Casa dello studente - con una lenta erosione dei poteri decisionali delle comunità e degli enti locali, esautorati e costretti a sentirsi stranieri nella propria terra». Disapplicando completamente la legge istitutiva della Protezione civile che nella prima parte affida all'organizzazione il principale compito di prevenzione delle calamità e di informazione della popolazione sui rischi e sui piani di evacuazione, in 36 ordinanze il commissario straordinario Guido Bertolaso, sottosegretario alla Protezione civile («figura che nella legge istitutiva del '92 non meritava nemmeno la maiuscola», sottolinea Menzione) ha plasmato invece il futuro della città, del suo tessuto urbanistico e sociale. Ma la vita quotidiana dei cittadini terremotati è stata trasformata e limitata ogni giorno senza alcun atto scritto, nella più completa insindacabilità e discrezionalità politica e senza la possibilità di chiedere giustizia di fronte alle competenti autorità giudiziarie: «Ogni giorno nuovi divieti, nuovi orari, nuove zone rosse, nuovi passaggi, e tutto senza fonti normative a istituirli - racconta ancora Giannangeli -: in questo modo la violazione delle libertà individuali e dei diritti è stata ed è totale». Per decreto della presidenza del consiglio dei ministri, l'emergenza istituita il 6 aprile a L'Aquila cesserà il 31 dicembre 2010. La Protezione civile invece cesserà la sua opera di soccorso alla fine del 2009 lasciando molte patate bollenti nelle mani degli enti locali, ma la legislazione d'emergenza durerà un altro anno ancora.
Violando molti articoli della Costituzione, come ha spiegato Giovanni Incorvati, docente di diritto costituzionale alla Sapienza, la gestione dei soccorsi e della ricostruzione post terremoto ha impedito la partecipazione della popolazione alla gestione dell'emergenza. «No people, no landscape - cita il Consiglio d'Europa, il professor Incorvati - se non c'è la popolazione, se la si cancella dalla partecipazione alla vita pubblica o la si obbliga all'esodo forzato, non esiste più nemmeno il paesaggio».
Ancora sulla sentenza CEDU
Le nuove prospettive del caso Giuliani
La lunghissima sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo pronunciata a seguito del ricorso di Haidi e Giuliano Giuliani contro il governo italiano per la morte del figlio Carlo quel fatale 20 luglio 2001 durante il G8 genovese merita qualche considerazione più approfondita. Non ci se la può cavare con il giudizio "politico" per cui un altro giudice ha inteso mettere una pietra sopra quell'omicidio. Si potrebbe concludere che a Strasburgo non c'è un giudice e la Cedu si è mossa nella stessa linea del giudice genovese che archiviò invocando per Placanica la legittima difesa e l'uso legittimo delle armi solo se si parte dal presupposto che i genitori di Carlo ed il loro tenace difensore avessero messo al primo posto delle loro richieste il riconoscimento della colpa di Placanica. Il che non è e, del resto, non avrebbe potuto essere. La Cedu non è mai chiamata a decidere sulla colpevolezza di un soggetto, ma se in questo o quel caso il processo si è svolto con tutte le dovute garanzie e se l'indagine che precede il processo è stata carente o lacunosa. Il ricorso Giuliani proprio questo lamentava: che l'indagine sull'omicidio di Carlo era stata svolta male, affrettatamente e con troppi punti oscuri. Sarebbe occorso, invece, un pubblico dibattimento. Proprio su questo punto la complessa sentenza da ragione ai Giuliani.
Fin dall'inizio dell'indagine (mancato tempestivo avviso ai congiunti dell'autopsia da effettuarsi e quindi impossibilità per loro di nominare periti; nulla osta alla cremazione della salma di Carlo a meno di 72 ore dall'evento), e poi nei risultati sommari e tutt'altro che convincenti degli accertamenti tecnici; continuando nella mancata indagine sulle modalità con cui si intese tutelare l'ordine pubblico in quei giorni a Genova e quindi sul non avere indagato se vi fossero state responsabilità nel mandare un inesperto psicolabile come Placanica con una pistola armata di pallottole letali e via continuando; tutti questi elementi fanno ritenere che non è stata condotta un'indagine seria, approfondita ed esaustiva.
Ciascuno di questi elementi citati va a colpire dati che in tutti questi anni sono stati da molte parti censurati, anche nelle aule giudiziarie; ma che di fronte ai giudici genovesi hanno sempre trovato poco ascolto. Eccetto la contraddittorietà degli ordini e la gestione complessiva dell'ordine pubblico quel venerdì 20 luglio, specie in via Tolemaide e dintorni, che già avevano trovato un riconoscimento significativo all'interno della, peraltro durissima, sentenza di primo grado contro i manifestanti. Ora tutto ciò trova una sanzione ulteriore a livello internazionale. Non è poco.
Ma la sentenza di Strasburgo pone anche questioni non da poco sulla dinamica stessa dell'omicidio, pur attestandosi poi sulla legittima difesa. Come si è potuto non indagare sul frammento di metallo rilevato nel cranio di Carlo? Come mai fu ferito con un sasso quando era già agonizzante? Come mai il defender su cui era Placanica non aveva reti di protezione ai finestrini e quindi un asse poté entrare all'interno e così impaurire il carabiniere fino a provocarne la sproporzionata reazione? Come mai Placanica, al pari degli altri operativi, fu dotato di proiettili letali invece che di proiettili di gomma antisommossa, come prescrivono le norme internazionali in questa materia e in casi come questi? I giudici di Strasburgo si sono spinti ben oltre le facili spiagge su cui si era attestata la magistratura genovese. «Deplorevole» per alcuni aspetti, l'operato della Procura, «troppe questioni cruciali sono state lasciate senza risposta», per concludere che «le autorità non hanno condotto un'adeguata indagine sulle circostanze del decesso di Giuliani». Non lo si era mai letto in una sentenza italiana, e la censura non riguarda solo la magistratura ma anche investigatori e politici.Non è un caso che i giudizi politici di parte governativa (Gasparri) si sono affrettati a dire che ora la partita è veramente chiusa. Al contrario, oggi la partita si riapre. Può essere che Placanica si senta rafforzato nell'esimente della legittima difesa. Ma vi sono responsabilità ben maggiori in capo a chi operò perché quel momento si verificasse con quelle caratteristiche.
La sentenza Cedu, quindi, non solo apre alla possibilità che i genitori di Carlo agiscano in sede civile per un risarcimento adeguato, sempre ammesso che esista un possibile risarcimento per la barbara uccisione da parte dello Stato di un figlio ventenne. Ma potrebbe riaprire anche le porte dell'indagine penale, magari non necessariamente o solo contro Placanica, ma contro chi in quei drammatici giorni pose i presupposti perché la sua mano sparasse contro Carlo. Per non dire di una possibile commissione parlamentare d'inchiesta, tante volte invocata (da pochi) e sempre rigettata (da molti), che ora troverebbe una sua ulteriore legittimità proprio nella pronuncia dell'alta Corte internazionale.
Ezio Menzione G8 di Genova: una gragnuola di anni di carcere per alcuni dimostranti
Un commento dell'avvocato Ezio Menzione sulla recente sentenza contro 24 manifestanti .
Sentenza di appello della Corte d'Appello di Genova contro 24 dimostranti che nei giorni del G8 genovese erano scesi in piazza contro gli 8 capi di stato. 24 supposti black block, secondo l'accusa che per tutti loro ha sempre sostenuto che sarebbero stati colpevoli di devastazione e saccheggio, reato punito con la pena da 8 a 15 anni.
Per 10 di loro, già riconosciuti colpevoli in primo grado, le pene sono state addirittura aumentate (per 3 fra questi l'aumento è stato di 2, 3 e anche 5 anni, arrivando così al massimo di 15; per gli altri vi è stato un "ritocco" di qualche mese verso l'alto). Per 11 imputati, che avevano riportato pene miti, ma per i quali l'accusa aveva interposto appello, si è dichiarata la prescrizione (che una volta tanto non serve solo ai poliziotti aguzzini di Bolzaneto o ai massacratori della Diaz); 2 sono stati assolti; per uno è stato annullato l'intero giudizio. Fortunatamente ha resistito il punto più importante e positivo della prima sentenza: il comportamento dei dimostranti in via Tolemaide, anche se fu violento, fu giustificato dalle cariche dei carabinieri, del tutto illegittime e ingiustificate. A fronte di questo unico dato positivo, sta la gragnuola di anni per un reato che, nella sua materialità, è reato contro le cose, non contro le persone e che per ciò stesso dovrebbe essere riguardato (ed in effetti è considerato dal sentire comune) meno grave dei reati contro la persona (stupro, omicidio ecc.). Invece qui si è andati giù con una durezza "esemplare": pene da omicidio volontario. Tralasciamo qui di rilevare quanto già scriveva Beccaria nel ‘700: comminare pene così severe da andare vicino a quelle per i reati più gravi induce fatalmente a commettere questi ultimi: se devo rischiare così alto, tanto vale! L'esito di questo appello colpisce soprattutto perché giunge ad una settimana di distanza dall'assoluzione dell'allora Capo della Polizia De Gennaro: istituzionalmente il massimo responsabile per ciò che accadde a Genova in quei giorni. E che a Genova l'ordine pubblico non lo si seppe (o non lo si volle) tenere ed i responsabili di esso portino grosse colpe non siamo noi a dirlo, bensì la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che proprio in questi termini si è espressa in una sentenza del luglio scorso. Ma De Gennaro non solo non fu indagato né ha mai pagato per queste gravi responsabilità, ma è stato assolto anche dall'accusa, provata quanto meno su una base logica, di avere indotto alcuni testimoni eccellenti a dire il falso davanti ai magistrati per attenuare le responsabilità della polizia. Di ciò, infatti, questi si erano vantati in telefonate casualmente intercettate. Due pesi e due misure, si usa dire in questi casi. Durissimi coi dimostranti; miti, comprensivi, indulgenti e garantisti con le forze dell'ordine, qualunque crimine, anche gravissimo, esse compiano. E' vero, è proprio così, è quasi sempre così. Ma qui vi è di più. Vi è il tentativo di riscrivere nelle aule di giustizia la storia di quelle giornate addossando ai manifestanti le responsabilità e sollevandone le forze dell'ordine, in ogni ordine e grado: i gradi superiori non sono stati nemmeno chiamati a rispondere, quelli intermedi sono stati assolti, quelli più bassi hanno riportato (neanche sempre) pene mitissime e si avviano verso la prescrizione. Eppure le immagini di quelle giornate le abbiamo ancora davanti agli occhi: le violenze di alcuni dimostranti sono state sempre contro le cose, i beni; quelle delle forze dell'ordine sempre contro le persone, spesso inermi, spesso innocue, spesso addirittura già nelle mani di chi avrebbe dovuto custodirli senza torcergli un capello. Avete ancora negli occhi le immagini dei poliziotti che massacrano i dimostranti della Rete Lilliput, quelli con le mani tinte di bianco in Piazza Manin? Ve li ricordate ammassati impauriti in un angolo della piazza? ve li ricordate pesti e sanguinanti sotto i manganelli della polizia? Un'altra sentenza emessa a Genova la settimana scorsa ha stabilito che quei dimostranti, aggrediti dalla polizia che intanto lasciava che i veri black block si allontanassero indisturbati, sono colpevoli di avere intralciato il buon lavoro delle forze dell'ordine. Il prossimo 20 ottobre ci sarà l'appello contro la sentenza di Bolzaneto e il 20 novembre quello per i fatti della Diaz. Se piove di quel che tuona, agli aguzzini e ai massacratori daranno un premio.
La morte di Carlo e la sentenza della Corte Europea
LA MORTE DI CARLO GIULIANI E LA SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA
di Ezio Menzione
Anche la Corte Europea, con una sentenza pubblicata ieri, si è espressa sostenendo che il carabiniere Placanica, in quell’ormai lontano 20 luglio 2001, durante il G8, avrebbe agito per legittima difesa quando sparò ed uccise Carlo Giuliani.
Strasburgo come Genova: non c’è un giudice a Berlino, verrebbe fatto di dire.
E’ così, indubbiamente. Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non è immune da pressioni politiche; è ben lungi dal non praticare compromessi; conosce bene fin dove può spingersi senza troppo infastidire gli stati membri.
Eppure sono convinto che tutto sommato i giudici europei si siano spinti laddove la magistratura genovese non ha nemmeno inteso affacciarsi.
La sentenza si muove su tre capisaldi:
Primo. Placanica ha sparato per legittima difesa e comunque aveva il diritto di farlo. E’ la stessa ipotesi su cui si mosse il Giudice genovese che archiviò la posizione del carabiniere. Conclusione non condivisibile, viste le risultanza dell’indagine (quella di allora e quel tanto di verità che sul punto è emerso successivamente) che la famiglia Giuliani e per loro l’Avv.Niccolò Paoletti aveva esposto con chiarezza alla CEDU. Per lo meno, però, la CEDU fa piazza pulita dell’ipotesi del proiettile vagante che impatta in un calcinaccio volante. Non ci credeva nessuno già allora. Ora possiamo dire fondatamente che si tratta di una frottola. Placanica ha sparato e non poteva non calcolare che sparando in quel modo e in quel contesto avrebbe ammazzato qualcuno.
Naturalmente, come alcuni hanno ipotizzato, anche qualcun altro può avere sparato in quegli attimi, e Placanica ha fatto da capro espiatorio. La sentenza della CEDU non prende nemmeno in considerazione questa ipotesi.
Secondo. Ma ciò rimanda ad un secondo punto importantissimo: la CEDU censura la magistratura italiana per avere frettolosamente chiuso il caso, laddove – come ha sempre chiesto la famiglia Giuliani – soltanto un processo dibattimentale avrebbe consentito di far luce sui mille aspetti oscuri della vicenda.
E’ questo senz’altro il punto più importante della sentenza. Su questo fronte Haidi e Giuliano escono vittoriosi.
Terzo. Comunque la morte di Carlo è da ricondursi ad una serie di carenze organizzative, indicazioni e comandi contraddittori, insomma una gestione carente e colpevole dell’ordine pubblico nei giorni del G8 genovese. Non è una novità, a dire il vero. Si poteva addirittura parlare di volontà precisa di affossare l’intera Genova nel caos e nel dramma. Già le tre sentenze di primo grado genovesi (quella contro i 25 manifestanti, quella su Bolzaneto e quella sulla Diaz) avevano sottolineato o almeno rimandato a questi aspetti. Che tutto ciò sia riconosciuto da una Corte internazionale non è però privo di importanza.
La Corte ne ha fatto discendere addirittura una multa contro il governo italiano a favore dei Giuliani. Insomma, se le cose fossero state organizzate meglio e non si fosse contribuito ad esasperare fatti e toni, Carlo con ogni probabilità non sarebbe morto. Non è molto, diciamolo pure, a 8 anni di distanza dai fatti; ma è senz’altro una condanna politica per chi – soprattutto, ma non solo, a destra – ha sostenuto che tutto in quei giorni era sotto controllo e che il macello fu dovuto solo ai black block e ai manifestanti violenti.
La sentenza CEDU, per come ricostruisce i fatti, autorizza la famiglia Giuliani a chiedere comunque i danni per la morte di Carlo con un altro processo in sede civile. Non sappiamo se Haidi e Giuliano vorranno intraprendere questa ulteriore battaglia: non si può chiedere anche questo a due persone da 8 anni in prima fila nel ricercare la verità sulla tragedia che li ha investiti, e che assieme a loro ha investito tutti noi; c’è un limite a tutto. Ma se vorranno affrontare anche questa battaglia, troveranno sostegno fra chi non dimentica quel venerdì pomeriggio di luglio nel 2001.