REPORT SUL PROCESSO DEL 15 GIUGNO 2017 A TREBZON

LIBERARE UN AVVOCATO IN TURCHIA
di Ezio Menzione
Una volta ancora vado in Turchia a seguire un processo come Osservatore Internazionale in nome dell’UCPI (Unione Camere Penali Italiane), del LTI (Legal Team Italia) e dell’AED (Avvocati Democratici Europei). E’ con me la collega Doria Rizzardo per i Giuristi Democratici e per il suo Ordine degli Avvocati, quello di Padova. Arriviamo nel tardo pomeriggio e all’aeroporto tutto va liscio, nessuno ci ferma o ci pone domande particolari. A Istanbul non ci sono turisti stranieri, né a Istiklal né a Sultanhamet dove in genere essi soverchiavano per numero i turchi: effetto attentati.


Bellissimo nome Deniz, significa “mare”. Deniz Surgut è un giovane avvocato di una cittadina di campagna curda. Quando lo hanno arrestato, nell’agosto 2015, aveva appena fatto il suo giuramento. E’ seguita una lunga detenzione, con un primo periodo di torture e maltrattamenti di ogni genere finché fu detenuto giù, nel Sud Est della Turchia (Kurdistan) e poi un’ordinaria galera per molti mesi ancora, in una prigione vicino al Mar Nero, a più di mille kilometri da casa, come sempre avviene per i prigionieri curdi.
Siamo abituati ad essere Osservatori Internazionali in processi contro avvocati e l’accusa è sempre, invariabilmente, connessa al ruolo di difensore e ha sempre (e sottolineo sempre) come sottotesto il solito paradigma che vede il difensore partecipe delle malefatte dell’imputato e spesso consiste nell’avere difeso “troppo bene” l’assistito, specie nei reati politici e d’opinione. L’accusa, invece, qui è di concorso in tentato omicidio (di un poliziotto) oltre che di attentato all’unità e all’integrità della nazione turca, incriminazione standard nei processi politici. Deniz si era trovato in una piazza di Midyat, una cittadina quasi al confine con la Siria e, avendo sentito uno o più spari e, nel fuggi fuggi generale, è scappato anche lui. Poi, forse constatando che la polizia stava arrestando tre ragazzi che non ci entravano nulla, pensò, in quanto avvocato, di avvicinarsi per spiegare e la polizia arrestò pure lui. Siccome gli spari avevano rischiato di colpire un poliziotto, ne conseguì l’accusa di tentato omicidio in concorso. Anche per il giovane avvocato.
Alla fine del novembre scorso partecipai come Osservatore Internazionale, assieme alla collega Barbara Spinelli, chiamati dai colleghi curdi, innanzi al Tribunale (tre giudici, non è prevista mai la giuria popolare) di Midyat. Avrebbero dovuto esserci le dichiarazioni degli imputati perché così cominciano i processi in Turchia, ma Deniz non c’era, nonostante il Presidente ne avesse disposto la traduzione, e si era rifiutato di comparire in teleconferenza, stante, appunto, l’ordine di traduzione già disposto ma non eseguito dalla polizia penitenziaria perché il detenuto era troppo distante.
E’ così che, su richiesta del PG accolta dal Ministero della Giustizia, in via eccezionale, il processo è stato trasferito al tribunale di Ghiumiusciane, una cittadina dal nome suggestivo (significa “Città d’Argento”!) sulle montagne del Ponto, a ovest di Trebisonda, vicino a dove Deniz era detenuto.
Alla seconda udienza io non partecipai, ma so che Deniz rilasciò le sue dichiarazioni difensive, che smontavano pezzo per pezzo i fondamenti dell’accusa: la pistola ritrovata non portava impronte di nessuno dei quattro imputati, la traiettoria del tiro era incompatibile, il fatto che lui stesso, dopo avere sentito i colpi si rifugiò in una vicina moschea e poi tornò dove erano i tre ragazzi e così via. Nessuna contraddizione fra le dichiarazioni degli imputati; contraddizioni interne, invece, nella ricostruzione della polizia; inconsistenza dell’accusa.
Il giorno dell’udienza io e la collega Dora Rizzardo si vola da Istanbul a Trebisonda di mattina prestissimo. Qui troviamo alcuni colleghi, fra cui il principale difensore di Deniz. Le previsioni non sono rosee: l’interprete turco-curdo non è arrivato da Istanbul e non se ne trovano altri lì sul Mar Nero, a una tale distanza dal Kurdistan; il Presidente si è rifiutato di interpellare le altre corti circonvicine per recuperarne un altro. Si rischia che l’udienza sia rinviata: viaggio a vuoto per noi, prolungarsi della detenzione per quei poveretti.
Un pulmino noleggiato apposta ci porta da Trebisonda a Ghiumiusciane: 100 km. di strada di montagna, un panorama continuamente mutevole e bellissimo. L’udienza era fissata per le 14:30 e comincia puntuale. I tre giudici sono molto giovani (non gli stessi di Medyat, ovviamente) e il Presidente avrà si e no trent’anni. Deve parlare l’ultimo dei quattro imputati e la questione della traduzione si risolve proponendo un amico curdo che era venuto ad assistere al processo, ovviamente non iscritto nelle liste degli interpreti. Il Presidente, così rigido nel non volere interpellare le corti circonvicine, si accontenta e l’udienza prende l’avvio.
Il Tribunale locale è di recente costruzione e non devono essere abituati a processi di rilievo. Ci sono una ventina di poliziotti, in uniforme e in borghese: più degli spettatori.
Si comincia male: in Turchia oggi sono consentiti ad ogni imputato “solo” tre difensori, mentre prima dello stato di emergenza i difensori potevano essere quanti se ne voleva (potendoselo permettere). Ovviamente si discute se la norma valga anche per i processi già in corso al momento dell’entrata in vigore della nuova legge; all’udienza scorsa il Presidente aveva lasciato il numero invariato, questa volta invece pone il limite di tre. Quelli in più si accomodino pure fra il pubblico.
Io chiedo ai colleghi se sia il caso che noi Osservatori Internazionali ci si presenti al Presidente, anche per chiedere di sedere nell’area degli avvocati, come d’uso. I colleghi mi sconsigliano, perché il Presidente, che già sa della presenza degli osservatori, sembra essere un po’ scorbutico. Io mi adeguo, ma storco visibilmente la bocca: non sono affatto d’accordo. Così anche noi sediamo in alto, fra il pubblico e davanti a noi sta il Tribunale, con la solita scritta dorata “la Giustizia è il Pilastro dello Stato” e, sopra, una specie di maschera mortuaria anch’essa dorata di Ataturk accigliato (forse per come vanno attualmente le cose in Turchia!) che lo fa assomigliare più a Dracula che al distinto dandy qual’era.
Le dichiarazioni dell’ultimo rimasto sono in linea con le altre: eravamo sul posto, abbiamo sentito uno o più spari, come tutti abbiamo cercato di scappare, ma la polizia ci ha fermato. Il Presidente pone con insistenza poliziesca sempre le stesse domande più e più volte (come arrivaste sul posto? Di che colore era l’auto? Ecc.ecc.) col chiaro intento di farlo cadere in contraddizione, finché il difensore si oppone a questo metodo di interrogatorio, tacciandolo di illegittimità ed il Presidente si cheta. Al termine si dà atto a verbale della presenza di noi Osservatori Internazionali e delle associazioni che rappresentiamo e poi viene di nuovo richiesta la remissione in libertà. Il PM dà il suo consenso per Deniz e per un altro ragazzo detenuto, minorenne all’epoca dei fatti e ancora adesso e affetto da tumore (benigno, per fortuna) al cervello, che era presente in videoconferenza. Il Tribunale dopo una camera di consiglio di una mezz’oretta, dispone in conformità. La madre, simpatica signora con la testa velata, e la sorella scoppiano a piangere dalla gioia; tutti molto contenti. Tutti ci ringraziano come se i due detenuti l’avessimo liberati noi.
Sono già le 6 e si va in gruppo fino al carcere, distante una ventina di kilometri di strada tutta curve in mezzo ad un panorama montano: quanto di più idilliaco, con una gran fioritura di molti colori, ma con un freddo tagliente. Aspettiamo due ore, ma poi dobbiamo rinunciare perché ci aspetta un lungo tragitto di ritorno a Trebisonda in bus per prendere l’ultimo volo delle 22:30. Si arriva a Istanbul-Sabiha dopo mezzanotte e abbiamo la notizia che Deniz è stato scarcerato alle 23:30. Si va a letto alle 2.
Il giovane avvocato e il ragazzo malato sono liberi. La loro libertà forse prelude anche a quella degli altri 2 imputati. La prossima udienza è stata fissata per il 7 settembre. Missione compiuta. Felicemente, questa volta!
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Missione compiuta, si dice. Ma cosa ci mettono gli Osservatori Internazionali in questi casi? Non molto a dire il vero, almeno per ciò che riguarda la decisione, anche se a noi piacerebbe poter dire: “E’ stato liberato grazie a noi!”, ma non è affatto così. Gli Osservatori Internazionali si sobbarcano voli e spostamenti (in questo caso per me 4 treni, 4 voli, 8 lunghi spostamenti in bus in meno di tre giorni: un’ammazzata!) per far capire alla giustizia (turca, in questo caso) che ha gli occhi addosso e che non può permettersi di spadroneggiare più di tanto; anche se poi, spesso, spadroneggiano, eccome! Serviamo poi in quanto esprimiamo solidarietà e appoggio ai colleghi che stanno attorno agli imputati. Sia a Midyat che a Ghiumiusciane non avevano mai visto un Osservatore Internazionale prima di questo caso. Serviamo infine per far conoscere all’estero come è amministrata la giustizia in questo o quel paese, cosa che faccio col report che state leggendo. Forse non è molto, ma, a giudicare dai ringraziamenti dei colleghi di laggiù, qualcosa è.