AVVOCATI AL G8

AVVOCATI AL G8

di Ezio Menzione



Ero il più vecchio, fra gli avvocati che intervennero al G8 di Genova nel luglio del 2001.

A me dicevano “il più esperto”, ma intendevano il più vecchio. Eppure non ero poi tanto vecchio, ma erano tutti gli altri di quel volenteroso manipolo che erano proprio giovanissimi, alcuni nemmeno penalisti, ma che si fecero le ossa in quei giorni e poi nei processi che seguirono, fino a diventare, oggi, validissimi difensori. In un gruppo, peraltro non tanto numeroso, avevamo già preso accordi nelle settimane precedenti: saremmo stati presenti in piazza, per cercare di evitare infiltrazioni di provocatori e, soprattutto, per mediare in caso di attacchi della polizia ai cortei, nei quali era stato deciso dal Genoa Social Forum che non ci sarebbe stato servizio d’ordine, proprio per rimarcare il carattere assolutamente pacifico dell’iniziativa.

Io ero presente a Genova fin dal martedì, perché ero invitato a parlare all’interno delle iniziative del GSF in un dibattito sui diritti degli omosessuali, su cui era stato di recente pubblicato un mio libro, e così vidi nascere e crescere tutto il villaggio di Piazzale Kennedy, proprio sul mare, dove anche noi avvocati avevamo il nostro gazebo. Poi ci assegnarono una sede presso Legambiente, vicino a Piazza Alimonda, che divenne un centro frenetico di raccolta di dati legali giorno dopo giorno, e una stanza al secondo piano della scuola Pascoli, dove operavano sui computer dei nostri collaboratori e che poi fece una brutta fine, così come la sottostante Indymedia quando la polizia fece irruzione alla Diaz e, appunto, alla antistante scuola Pascoli.

L’accordo fra di noi era che, per riconoscibilità, avremmo indossato una pettorina gialla col simbolo del G8 e con la scritta Avvocato/Lawyer e il numero di telefono cui chiunque avrebbe potuto rivolgersi in caso di fermo. Io, al pari di tutti gli altri, non stetti lì a pensare se una pettorina così fosse consona al nostro status e al nostro profilo deontologico. Avremmo visto poi che invece la faccenda fece molto specie a molti altri colleghi e a vari Consigli dell’Ordine. L’intesa era che avremmo dovuto interporci fra i manifestanti e le forze dell’ordine in caso di tensioni e avremmo dovuto intervenire in caso di fermo, se non addirittura di arresto, per vigilare che i poliziotti non eccedessero. Così fu durante la manifestazione dei Migranti del giovedì 19 pomeriggio, dove dovemmo giustappunto interporci quando alcuni manifestanti fecero alcune mosse per avvicinarsi un po’ troppo alla inviolabile zona rossa: lo facemmo, con qualche buon risultato e tutto filò liscio e felice.

La mattina di venerdì ci svegliammo dopo un acquazzone notturno che aveva ripulito il blu del cielo e del mare, rincuorati dal buon esito della giornata precedente, ma preoccupati e dubbiosi vedendo che la zona rossa era stata ampliata fino a ricomprendere praticamente l’intera zona gialla (con paratìe e muri di containers) e, soprattutto, vedendo l’enorme dispiegamento di forze dell’ordine. Andai a Piazzale Kennedy, constatai che il numero di avvocati disponibili era molto cresciuto, con alcuni d’esperienza almeno pari alla mia, e concordammo che io (“tu sei il più anziano ed il più esperto”, mi dissero come al solito) ed un collega saremmo andati in Piazza Da Novi, dove avrebbe dovuto esserci la “piazza tematica” (concentramento e poi manifestazione) dei Cobas, che non era detto fossero perfettamente allineati con la linea pacifica e di non assalto alla zona rossa che si intendeva dare. Dopo pochissimo che ero arrivato ed i Cobas in pratica non c’erano ancora, arrivò un gruppo nutrito di manifestanti vestiti di nero e con bandiere nere, i black blok, che noi (o almeno io) non sapevamo nemmeno cosa fossero. Non erano molti e presero a divellere i segnali stradali e l’acciottolato della piazza per farne spranghe micidiali e sassi da lanciare: la polizia, che era lì a due passi, con mio sommo stupore non intervenne, anche se la gente comune la chiamava dai balconi e dai marciapiedi. I black blok ebbero tempo di defluire rumorosamente e facendo un po’ di danni prima in Piazza Tommaseo, poi oltre il sottopasso di Brignole fino al carcere di Marassi per poi salire in Piazza Manin e rovinare la “piazza tematica” della Rete Lilliput. Io ero rimasto a presidiare Piazza Da Novi, ligio al compito affidatomi, e fu così che mi ritrovai sotto l’attacco della polizia, che era intervenuta a inseguire e manganellare quando i black bolk erano ormai lontani. Fu in quel momento che capii che essere il più vecchio fra gli avvocati voleva forse dire essere il più esperto, ma certamente non il più veloce a correre e scappare. Tentai, tentammo, qualche intervento per sottrarre i malcapitati alle botte della polizia (ricordo un medico, anche lui con pettorina con scritto “medico G8”), ma con l’unico esito che se la presero anche con me e con chi era con me. Da lì in poi fu chiaro che il compito di interposizione sarebbe stato molto arduo e avrebbe avuto scarso successo. Certo non potevo supporre che la pettorina di avvocato sarebbe diventato uno dei target preferiti dalle forze dell’ordine per manganellare con dei nuovi tipi di strumenti, micidiali, chiamati appropriatamente ”tonfa”. Il pomeriggio passò fra l’attacco dei carabinieri al pacifico corteo delle Tute Bianche in via Tolemaide, un autobus dei CC dato alle fiamme e alcuni scontri nei dintorni. Noi avvocati assistevamo quasi impotenti a tutto ciò e facevamo la spola con le nostre postazioni per riferire ciò che avevamo visto. Ma in verità la diretta di una radio e di una TV locale era molto più tempestiva ed esaustiva. A metà pomeriggio, eravamo in piazzale Kennedy, un’infermiera del servizio medico del GFS, Valeria, chiese di essere scortata per raggiungere la sua postazione vicino a Piazza Alimonda, nessuno si fidava più a girare da solo. La scortammo io ed un giovane collega. Arrivammo in Piazza Alimonda ed un manifestante era riverso a terra, non si muoveva più e i CC tenevano la gente a distanza. Dissi che Valeria era infermiera e che poteva visitare il ferito: lei passò e, credo, fu l’ultima a chinarsi su Carlo Giuliani che ancora respirava. A me non mi fecero passare.

La tensione era alle stelle, moltissimi i feriti, molti anche i fermati. Ma al mattino si era sparsa la voce che nemmeno noi avvocati avremmo potuto incontrare i fermati perché vi era una sorta di ordinanza del Procuratore Capo che vietava i colloqui fra avvocato e assistito. Non potevo crederci; chiesi ai genovesi dove fosse la più vicina caserma dei CC e mi fu detto a San Giuliano, vista mare. Salii sullo scooter di un giovane collega di nessuna esperienza, che oggi è un noto e bravo criminologo, e andammo alla caserma; qui scoprimmo che alla ordinanza di cui ci era stato detto corrispondeva un provvedimento fotocopiato, uguale per tutti, con soltanto il nome del fermato in bianco da riempire. Non ci fecero nemmeno entrare. Capii che il provvedimento avrebbe potuto coprire comportamenti illegittimi, mai più e mai poi pensai che proprio grazie a quel provvedimento sarebbero state compiute le nefandezze di San Giuliano e, soprattutto, di Bolzaneto. Ripassai il codice di procedura ed ebbi conferma che i colloqui potevano sì essere temporaneamente inibiti dal PM, ma con provvedimento individualmente motivato e non generico e uguale per chiunque. Chiedemmo un colloquio con il Procuratore Capo e ci fu fissato per l’indomani mattina: fu formalmente cordiale, ma molto teso e, ahimé!, Senza esito positivo. Ma dicemmo al Procuratore che avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di tutte le illegalità che fossero poste in essere grazie all’usbergo del suo provvedimento.

Nel tardo pomeriggio di venerdì la notizia della morte di Carlo era ormai purtroppo sicura e conosciuta da tutti. Tenemmo un’assemblea sul da farsi e noi del Legal Forum ci esprimemmo a favore del confermare la grande manifestazione dell’indomani e che noi saremmo stati ancora “di servizio”. Poi, sempre sullo scooter del giovane collega, andammo a verificare che tutto fosse calmo nei vari campi e vedemmo come molti manifestanti erano stati ridotti. Vedemmo un pulmino intero di greci feriti, che non volevano andare in ospedale preferendo cure arrembate, ma potere ritornare in patria il giorno dopo. Poi, sempre gli stessi due in scooter, andammo alla Pascoli e parlammo con gli addetti di Indymedia e del nostro centro legale. Ci chiesero che cosa dovessero fare se la polizia fosse intervenuta e avesse richiesto il contenuto dei computer con dentro le molte denunce e testimonianze raccolte quel giorno. Risposi che, se c’era un mandato di perquisizione, non c’era che consegnare il materiale, e comunque – mi raccomandai - “fate una copia su floppy di tutto e nascondetela altrove”. Mai un mio consiglio “legale” fu più provvidenziale, visto che la sera dopo la polizia entrò nei due centri distruggendo tutti i computer.

Il giorno seguente, sabato, dopo l’incontro con il Procuratore, scendo sul viale a mare per intercettare la manifestazione. Erano già passati i black blok procedendo indisturbati a vandalizzare quanto potevano, e solo a questo punto le forze dell’ordine intervenivano caricando, picchiando e arrestando a casaccio i pacifici manifestanti venuti da tutta Italia. Noi avvocati abbiamo cercato di intervenire per chi era sotto i colpi dei “tonfa”, ma senza successo, anzi, beccandoci colpi anche noi. Alle 8 di sera, dopo avere cercato di sapere quanti mai erano gli arrestati, tornai al mio paese, per prepararmi alle convalide che ci sarebbero state il lunedì. Non feci in tempo a metter il piede in casa che squilla il telefono. Stavano succedendo cose inenarrabili alla Diaz e alla Pascoli, compreso al nostro centro legale. Troppo tardi per me per rifare all’indietro i 200 km. per Genova.

Ho detto che il nostro intervento in quei giorni in piazza “con la pettorina” non fu ben visto da molti colleghi. Era una novità che noi pochi avevamo mutuato da esperienze straniere. Ma, per esempio, il Consiglio dell’Ordine di Genova (ma non fu il solo) parlò di “comportamento non dignitoso” e pure di “concorrenza sleale” e “accaparramento di clientela”. Alcuni Consigli iniziarono procedimenti a carico dei loro iscritti così “inappropriati”, ma poi non mi risulta che abbiano proseguito su questa linea. Peggio fu che anche all’interno della mia associazione, l’Unione delle Camere Penali, qualcuno storceva il naso e al nostro congresso nazionale, che si svolse a Roma il settembre successivo, il comportamento mio e del mio gruppo fu attaccato, domandandosi “dove andremo mai a finire”. Mi difesi con una certa dignità, ma non ce ne fu più bisogno dopo che Valerio Spigarelli si schierò con noi e con la libertà di condurre la professione come ci pareva, purché in difesa dei più deboli, i cui diritti venivano calpestati: anche in piazza, anche nel momento in cui venivano calpestati.

Luglio 2021